Negli ultimi anni, in Italia e in Europa, il dibattito sulla tutela dei dati personali ha mostrato un elemento inquietante ma rivelatore: anche le istituzioni nate per proteggere i cittadini possono attraversare momenti di fragilità, tensione o perdita di credibilità pubblica.
Non voglio entrare nel merito delle attuali vicende che stanno interessando il Garante Privacy. Mi basta osservare il clima generale oggi caratterizzato da:
- pressioni politiche,
- accelerazione tecnologica (runaway technologies),
- conflitti di interesse sempre più pervasivi,
- aspettative sociali enormi di “sicurezza” e controllo: "ce lo chiedono i cittadini",
- apparati pubblici sovraccarichi,
- poteri privati tecnologici immensi.
In un simile contesto, basarsi unicamente sulla protezione “istituzionale” non basta più.
La democrazia richiede cittadini consapevoli, capaci di interpretare la tecnologia e di difendere, con equilibrio, i propri diritti.
L’autodifesa digitale nasce qui: non come diffidenza verso lo Stato, ma come parte naturale della cittadinanza attiva.
Viviamo in un’epoca in cui ogni gesto — ogni ricerca, ogni spostamento, ogni acquisto — lascia una traccia. Come ha scritto Edward Snowden:
… ogni confine che attraversi, ogni acquisto che fai, ogni numero che componi, ogni ripetitore telefonico accanto a cui passi, ogni amicizia che coltivi, articolo che scrivi, sito che visiti, oggetto e-mail che digiti e pacchetto che spedisci, e persino la pubblicità che vedi, è nelle mani di un sistema che ha un raggio di azione illimitato …
Se da un lato la digitalizzazione ha portato efficienza, servizi smart, sicurezza nelle città, dall'altro ha anche aperto la porta a una forma nuova e più silenziosa di sorveglianza: quella algoritmica.
Telecamere intelligenti, riconoscimento facciale, piattaforme che profilano il comportamento, sistemi predittivi che anticipano le nostre scelte: questi strumenti non appartengono più ad un futuro distopico da film di fantascienza ma sono diventati parte della nostra vita quotidiana.
Sono tecnologie utili, a volte necessarie ma non sono neutre.
La domanda che dobbiamo farci è: come ci difendiamo, come individui, in un mondo in cui tutto ci osserva?
E soprattutto: difendersi significa essere “contro il sistema”?
La risposta è no. Perché in una democrazia difendere la propria libertà è un atto pienamente pro-sistema: significa impedire che gli strumenti nati per proteggerci diventino meccanismi di controllo perenne.
La sicurezza è un valore. Ma senza limiti diventa autoritarismo.
È comprensibile che le persone chiedano più sicurezza: viviamo tempi incerti, con paure reali.
La videosorveglianza può essere una risposta efficace, così come i sistemi di analisi automatica delle immagini.
Il problema nasce quando questi strumenti diventano:
- onnipresenti,
- automatici,
- non trasparenti,
- non proporzionati,
- non controllati democraticamente.
Il modello cinese del social scoring — sorveglianza totale, punteggi comportamentali, tracciamento ovunque — non è nato da un giorno all’altro. È nato proprio da un uso crescente della tecnologia giustificato con la sicurezza.
Le democrazie funzionano solo quando il potere è controllato.
E la tecnologia amplifica enormemente il potere.
L’autodifesa digitale è consapevolezza
Il GDPR, la Carta dei Diritti Fondamentali e l’AI Act rappresentano una conquista europea.
La normativa ci protegge, ma non basta.
Perché la sorveglianza oggi non è solo istituzionale.
È anche:
- social network,
- smartphone,
- data broker,
- app di tracking,
- piattaforme pubblicitarie,
- telecamere private,
- analytics predittivi,
- cloud fuori dall’UE.
La difesa formale è necessaria, ma incompleta.
Serve anche una difesa attiva, personale, quotidiana:
- capire come funzionano gli algoritmi;
- scegliere con cura i servizi digitali;
- limitare la diffusione inutile di dati;
- rifiutare pratiche invasive;
- esercitare i propri diritti di accesso, opposizione e cancellazione;
- chiedere trasparenza alle istituzioni e alle aziende.
Questo non significa “nascondersi”.
Significa non delegare completamente la propria libertà alla buona volontà dei sistemi tecnologici.
Chi si difende non è un ribelle: è un cittadino attivo
In una democrazia, il controllo del potere non è un atto sovversivo.
È un dovere civico.
L’autodifesa digitale è il modo con cui il cittadino:
- protegge la propria dignità,
- limita gli abusi potenziali,
- mantiene l’equilibrio tra sicurezza e libertà,
- impedisce derive autoritarie basate sulla tecnologia,
- rafforza, non indebolisce, lo Stato di diritto.
Le società autoritarie diffidano dei cittadini che fanno domande.
Le democrazie vivono grazie ai cittadini che fanno domande.
Il punto essenziale: la libertà non è automatica
La tecnologia, se lasciata senza controllo democratico, tende naturalmente verso la sorveglianza totale:
- perché è efficiente,
- perché è conveniente,
- perché è invisibile,
- perché è politicamente efficace.
Una democrazia, invece, vive di limiti:
- limiti al potere;
- limiti alla sorveglianza;
- limiti all’uso dei dati;
- limiti alla profilazione;
- limiti alla predizione algoritmica.
Costruire un modello di autodifesa digitale non è un atto di ribellione.
- Non è paranoia.
- Non è anti-autorità.
- Non è anti-Stato.
È la risposta civile e responsabile a un mondo in cui la tecnologia vede tutto, registra tutto, interpreta tutto.
È un modo per essere cittadini, non sudditi.
Per mantenere la libertà nelle mani delle persone.
Per impedire che la sorveglianza — pur nata da buone intenzioni — diventi un fine e non più un mezzo.
La democrazia digitale del futuro non nascerà da leggi perfette,
ma da cittadini consapevoli.
E l’autodifesa digitale è il primo passo.

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